O tutto o niente
Lucilla
Caro A, immagino ti aspettassi questa mia lettera.
Dove sarai quando la leggerai? In qualche bistrot parigino di infima categoria? Puoi ancora pagarti da bere? Tra l’altro ho visto le previsioni, a Parigi piove.
Ti ricordi quando mi hai scritto “Sei la mia Mimì”? Riferendoti alla Boheme, la storia d’amore tra un poeta e una povera sarta.
Non so se l’hai mai vista la Boheme, finisce male.
Io delle mi sono innamorata delle tue poesie, è vero, mai scritte per me ma per altre.
Ho sempre desiderato essere Francesca e Marion e tutte le altre. Dieci anni di libri, uno all’anno. Tutti pubblicati grazie a me.
Non ti ho mai chiesto di lasciare tua moglie, perché cosa potevo pretendere io, una prosaica, da te?
Mi bastava continuare a fare la tua agente letteraria, in fondo un’agente è per sempre. E io ero, sono, la migliore.
Mi bastava che dicessi di amarmi. Senza sprecare parole poetiche per me, mai. “Ti amo”, dicevi. Punto.
E a me sembrava la più bella delle poesie.
Ero felice quando mi chiamavi, dopo mesi di silenzio, ” Vengo a Torino” dicevi. Un’altra poesia meravigliosa.
Le sere a Torino ti condividevo con le tue fan, con i tuoi amici, i tuoi lettori, i tuoi gin. A tarda notte però tornavamo a casa insieme. Camminavamo lungo il Po barcollando, come se tutto andasse bene.
Nel letto mi dicevi ti amo. Ubriaco e intontito, ti restavano le forze solo per queste due sillabe. E io ero sempre in attesa che le pronunciassi.
Adesso, dopo anni, ho conosciuto anche tua moglie. L’hai portata all’incontro con l’editore organizzato da me. Mi fai pena!
Ti scrivo per dirti due cose.
Il tuo incontro con l’editore a Torino è andato male. Non gli piacciono le tue ultime poesie. Anzi, rivelazione, non gli sono mai piaciute.
Lo sai che nell’ambiente ti chiamano Franco Franchi? Dicono che fai ridere di pena e però ti senti un principe. Beh, dovevo dirtelo per onestà.
Nonostante tutto l’editore mi ha detto che se io voglio ti pubblicherà. E’ sempre andata così, te l’ho mai detto? Beh dai, in fondo lo hai sempre saputo che non vali niente.
Quante serate mi son fatta con i tuoi editori ridendo di te e delle tue rime baciate.
Ma chi negherebbe di pubblicare un libro a un mio protetto? A me. Lucilla Scavazzi. La regina del jazz set letterario.
Ma questa volta non verrai pubblicato. Questa volta no.
Sai qual è il significato della Boheme? Alla fine si comprende che la vera poetessa è sempre stata lei, Mimì. E lui, è sempre stato solo un venditore di parole ruffiane.
Ti saluto.
P.S. In questa lettera troverai anche la revoca del contratto. Io non lavoro più per te.
A.
Cara Lucilla,
Lasciami dire che rispetto questa tua decisione. La grande Lucilla Scavazzi evidentemente non crede più in me. Non ha mai creduto in me, forse. Fa male, ma che dire, me lo merito.
Sai, la verità è che Parigi mi rende fragile, così grigia e snob ti guarda dall’alto e ti fa sentire un semplice poeta in mezzo ad una marea di artisti. Un burattino succube di una grande città spenta.
Ho smesso di fumare, non te l’ho detto, ma quell’ultima volta che me l’hai fatto notare, c’ho pensato su. Vedi, sei sempre stata cosi’ convinta che non ti ascoltassi, eppure io lo facevo. In silenzio. Immagazzinavo quelle informazioni per poi trovare il momento giusto per metterle in pratica. Lo so che ho perso tanti momenti giusti. Non sono mai stato bravo in tante, troppe cose.
Sono stato un inetto, una patetica ombra della tua luce geniale. Sei stata la mia forza motrice, la mia Mimi’, colei in grado di far di me molto piu’ che un patetico poeta squattrinato che ero quando mi hai trovato. Quando vendevo poesie a tre euro ai passanti che si fermavano incuriositi, sotto i ponti di Torino. Mi sono sempre fatto pena. Ma tu, tu Lucilla mi hai visto e l’ammetto, da quando i tuoi occhi si son poggiati su di me ho vissuto della tua luce per tutti questi anni, me ne sono cibato fino a consumarla lentamente. Mi odio per questo.
Eppure, non questa tua decisione non mi sorprende. Sapevo che questa storia aveva una data di scadenza, come quella della bottiglia di latte che ogni volta controlli meticolosamente, ma non bevi mai perche’ ti fa male. Si, me ne ricordo. Sapevo che tu ti saresti stancata di me. Perche’ e’ questo quello che sono no? Un poeta che da pena. Un comico che trovi in quelle bettole parigine che ride di se stesso davanti ad un pubblico di ubriaconi sfiniti, no? E poi, mia moglie. Ho smesso di amarla tanti anni fa, nemmeno mi ricordo più. Da quando ho visto te. Però come puoi sorprenderti adesso, che non abbia mai preso quella decisione li? Lasciarla, stravolgere quel poco che son riuscito a costruire con il minimo sforzo, lo ammetto, per te? L’hai detto tu l’ultima volta che ci siamo visti, sono un codardo, un fallito, un piccolo poeta senza fama e senza gloria.
La verita’ e’ che da quell’ultima volta, dopo quella brutta discussione ho pensato a noi, notte e giorno. A tutti i segreti, i silenzi, i ti amo non detti. Mi manchi Lucilla. Mi manca la tua luce. L’ho capito solo adesso. Dopo dieci lunghissimi, tumultuosi anni. Tu odiami pure, lo accettero’. Me lo merito. Pero’ sappi che da quando non ci sei piu’ tu nella mia vita, io non so piu’ scrivere, nemmeno quelle frasi scritte male che scrivevo prima. Mi sono spento senza il tuo amore. Sono vuoto. Un morto che cammina. Ho bisogno di te per vivere, per scrivere, per sentire un briciolo di emozione che ho sempre represso quando ti davo per scontata. Mi pento e mi dolgo per questo. Ma voglio cambiare.
Vorrei che non finissimo come la Boheme. Vorrei che tu fossi ancora la mia Mimi’. Accettero’ che tu non sia piu’ la mia agente letteraria. Nessuno e’ migliore di te in questo campo, ma trovero’ qualcuno degno di sostituirti. Pero’ ti prego, ti scongiuro, non smettere di essere la mia musa ispiratrice. C’è ancora speranza per noi? Dimmi di si.
Se non e’ troppo tardi, io ti aspettero’ tutti i giorni a mezzogiorno nel nostro caffe’. Le dome Cafe, 08 Boulevard du Montparnasse, 75014. Ti aspettero’, ti aspettero’ sempre.
Perdonami, se puoi.
Ps: Ho firmato la revoca del contratto. Così come ho firmato le carte del mio divorzio. Stavolta faccio sul serio. E’ il momento giusto.
Con amore
Tuo A.
Le mani che non trovo piu’
Avevo circa sei anni quando feci il mio primo incontro con la morte. Con il lutto. Con la perdita. Quel vuoto dentro che non ti sai spiegare. E allora menti a te stesso. Ti dici, “Beh oggi non c’e’, non e’ venuta a trovarmi.” Ma puoi vivere in una bugia per sempre? Non lo so, ma sono riafforati cosi’ tanti ricordi dolori che non so che farmene e allora scrivo. Scrivo oggi che affronto la mia ultima grande perdita, scrivo perche’ altrimenti divento matta. Scrivo perche’ e’ il mio modo per esorcizzare il dolore.
Il nonno Alberto ci portava nella casa di campagna a Ragosia, un piccolo paesello di campagna che si erge su una collinetta ai piedi del grande monte Erice. U munte lo chiamano. A Ragosia non c’era nulla, solo un mucchio di case, di cui molte abusive, di quelle costruite prima di molte leggi e mai regolarizzate. Non c’era nemmeno un supermercato, né un tabacchino, ma c’era un parchetto con dei giochi usurati dal tempo. Il nonno aveva questa grande villa spartana, ma per noi era una reggia in cui soggiornavamo d’estate. Valeria ed io ci allacciavamo le cinture ma stavamo sempre in ginocchio in quella vecchia fiat 500 gialla. Troppo irrequiete sulla stradavper arrivare alla nostra casa di collina. La nonna ci ammoniva di stare sedute bene. Che poi che significava stare sedute bene. “Faciti ballare tutti cose”, ma poi in realtà ci lasciava sempre fare quel che ci pareva. Era una liberale lei. Si chiamava Antonina, detta Nuccia, e noi quel nome un po’ rustico lo trovavamo indegno della sua grande bellezza, ma d’altronde l’avevamo sempre chiamata cosi’. Era paffutella e si muoveva a fatica, i capelli laccati e le mani piene di anelli. Quelle mani da sarta che tutte le signore del quartiere le invidiavano.
Era sempre accompagnata dal suo uomo tuttofare, dalle mani callose e dai capelli perfettamente composti e meravigliosamente bianchi. Era alto e grande. Un uomo dal grande busto e lunghe braccia. I suoi occhi azzurri si illuminavano al vederci e all’improvviso sfoderava un bianchissimo sorriso a trentadue denti, mentre ci abbracciava e ci faceva volare in alto. Nonna poi lo redarguiva, esclamando “Lasciali stare i figghi me, che poi ci gira a testa, veni ca sangu di lu cori meu”. Ci prendeva con le sue grandi mani paffutelle e ci faceva scendere dall’auto, facendo attenzione che non cadessimo tra gli arbusti distesi al suolo nel viale che conduceva alla nostra grande villa con vista. Non era una villa sfarzosa no, anzi non era nemmeno particolarmente bella all’interno. Vecchi mobili di stili diversi ammassati l’uno sopra l’altro, mille coperte rivestivano sedie, divani e poltrone. Una cucina a gas un po’ incrostata dal tempo e dai rimasugli di cibo rimasti. Mille giocattoli stesi sul pavimento. Eppure, quell’ umile villa con una sontuosa vista, era stata sede di numerosissime feste familiari. Generazioni su generazioni riunite in un grande caos di mille pietanze, bevande, grida, bambini con le ginocchia sbucciate, balli e girotondi, dove nonna Nuccia era l’anima della festa, il grande Gatsby di Ragosia. La Carra’ del paesello. Tutti si inchinavano davanti cotanta euforia, maestria nelle parole e padronanza scenica. Lei era la regina di questo impero ed io, con i miei sei anni, mi estraniavo al resto del gruppo e la guardavo da un angolino. Mi brillavano gli occhi mentre gesticolava e gridava di gusto. Pensavo “Nonna, voglio essere come a te da grande”. Poi Valeria mi tirava dal vestito che mia nonna ci aveva comprato per la festa e mi riportava alla gloria dei miei sei anni, quelli che a tratti mi stavano già stretti.
Dopo quella festa, mamma e papà se n’erano andati ed io e Valeria eravamo rimaste a dormire con i nonni. Il nonno Alberto, detto Betto, ci aveva svegliate dicendo che aveva un regalo per noi. Amavo i regali del nonno. Non potevi mai sapere che si sarebbe inventato quell’uomo dalla faccia buona pieno di rughe di fatica e sacrifici. Valeria era ancora intontita dopo una lunga dormita e aveva i riccioli scompigliati raccolti in un codino. Si girava e rigirava la notte, mentre dormiva accanto a me e mi riempiva di calci. Io restituivo a suon di spintoni e a volte parlavo nel sonno borbottando qualcosa di incomprensibile. Valeria diceva che forse ce l’avevo con lei. “Scinnite, chi va accattae u regalo”. “Nonno non e’ il compleanno di nessuno”. “E chi ci fa”. Cosi’ mi rispondeva. In Sicilia non c’e’ mai un buon motivo per comprare regali. Soprattutto quando i nonni donano ai nipoti. Nonno Alberto e Nonna Nuccia ci hanno sempre viziate da matti e noi lo sapevamo. Mi fiondo giu’ senza Valeria al seguito e all’improvviso vedo il mio regalo. Occhi di meraviglia. Bocca spalancata e sorriso da teppista. Prendo la ricorsa e raggiungo il mio regalo. “Nonno ma e’ una paperella gialla”. Lui la solleva, me la porge e mi dice “E’ tua!”. Io l’abbraccio e mi dico che questo e’ il regalo piu’ bello del mondo e lui e’ il nonno piu’ fantastico di tutti i tempi. Chi regala una papera alle sue nipoti? Pochi minuti dopo arriva nonna che, saggiamente, corregge il nonno esclamando “E’ di tutti rue, accussi’ un vi sciarriate!”. La donna voce della verita’.
Il resto della giornata lo passiamo con questa povera papera in braccio come se fosse una delle nostre bambole, aspettando chi delle due si stanchera’ prima e la mollera’ all’altra. Mentre il nonno ha costruito una casetta per la papera che battezzammo Gelsomina. Era un nome strano ma ci piaceva. Ci ricordava la pianta di gelsomino che ricopriva il giardino del nonno. Ci facevamo la granita e la nonna lo raccoglieva e ce lo faceva odorare, poi con amore lo poggiava su un orecchio e dolcemente lo attorcigliava tra i capelli.
Quella stessa estate, una mattina d’Agosto, con 40 gradi all’ombra, l’incidente fatale. La piccola me di sei anni scopre due delle emozioni primordiali dell’ essere umano, la rabbia e la tristezza. Corro dietro la mia dolce papera mentre lei scappa come fosse un cane. E’ un turbinio di felicità ed euforia quello che sento mentre lei scappa via da me. “Fermati che male ti fai sangu meo” mi dice nonna che inizia a tollerare sempre meno i sprint di iperattivita’. Io però non smetto ed e’ un giro dopo l’altro, su e giu’, destra e sinistra. Gelsomina forse ha il fiatone, io no. “Valeria vieni giu’ a giocare!” le dico. Valeria mi sente e mi grida da dentro casa “Arrivo”. Io e Gelsomina continuiamo a girare, poi ad un tratto mi fermo e si ferma anche lei a riposare. Si accovaccia sotto il gradino per cercare un po’ d’ombra. Vado a bere, mentre attendo che Valeria si unisca al nostro “acchiapparello”. Valeria scende con passo pesante le scale. Io bevo. La mia papera si gode la frescura dell’ombra. Valeria fa il salto finale, io mi giro verso di lei. Mi sussulta il cuore. Gelsomina! Crack. Mia sorella saltò sul collo della mia papera quella mattina d’estate. Gelsomina rimase viva ma non tornò mai piu’ ad essere quell’animale felice che il nonno mi regalo’. Era malconcia. Era un brutto e storpio papero. Ero furiosa con mia sorella. Per anni pensai che rovinava sempre tutto cio’ che toccava. Forse per questo smisi di convidere ogni mio avere con lei. Il nonno provo’ in tutti i modi a curarla. La situazione fu irreversibile. Pochi giorni dopo, nonno Alberto mi sveglio’ dicendo che Gelsomina era diventata cigno ed era volata in cielo con gli altri uccellini. Ero felice, adesso poteva volare lontano con i suoi nuovi amici. Una bugia di quel caro nonno che vuole proteggere le sue nipotine ci risparmio’ il primo incontro cosciente con la morte, ma io dentro di me lo sapevo che le papere non diventano cigni.
Ringraziai nonno per quella dolce bugia, era bello rimanere ancora un po’ in quella bolla di innocenza. Ci rimasi per altri diciassette anni, fino al mio successivo incontro con la morte, quando a lasciarci fu colei, che nei miei primi ventuno anni di vita non mi lascio’ mai la mano. Ed io le sue, piene di anelli.
E’ un brutto cancro al colon ci dissero i dottori un pomeriggio di settembre del 2009. Settembre, quando tutti tornano in citta’. Quando il sole non ci scalda più fino alle 22:00 e il vento ti arruffa i capelli a tutte le ore. Mia nonna Nuccia a settembre si spegneva sempre. Calava il sipario, faceva le valigie e chiudeva la sua dolce dimora al mare, Lido Valderice. Quel posto con il mare brutto, come diceva Valeria. Quel posto che chiamano scivolo e si scivola davvero e ti fai male ai piedi. Ci andavamo solo per stare con i nostri nonni, ed i nostri cugini Alessandro e Marco cresciuti con noi nella casa accanto, quella dei loro nonni paterni. I nonni si alternavano tra lunghe soste a Ragosia ed altre a Lido Valderice in estate. “Mi piace cambiare, accussi staiu cu tutti, la famigghia i l’amici”, mi spiegava mia nonna. A Lido si riuniva con i nonni di Alessandro e Marco e giocavano a carte, poi facevano le pizze con 40 gradi dentro la “Perlina”, come mio nonno chiamava la casa del forno, poi bevevano e ritornavano a giocare a carte. Sul finire della serata, il rito che noi bambini dell’epoca non capivamo mai. Sedie strisciate fin fuori al cancello. Piazzate come semafori nel grande viale contornato da umili villette. Poi si accasciavano e osservavano le stelle. Quel cielo blu privo di inquinamento luminoso. Rimanevano muti, inermi, non si guardavano nemmeno. Mi piaceva pensare che stessero ripassando tutte le strategie effettuate a scopone quella sera e che avevano condotto il team fortunoso alla vittoria. Oppure pensavano che la felicita’ era quella. Niente di più, niente di meno. Le stelle che ci guardano come tante formiche intrappolate in una terra di fatiche e lavoro, cosi’ quando arriva la notte il mondo si spegne e non ci rimane che quella luce nottura. Io li sbirciavo da dietro la tenda, dopo che i nonni ci avevano messo tutti a letto e potevano finalmente godersi quella quiete. Io però ero rinomata per non rispettare le regole. Una bambina anarchica. Na cruce. A mamma le dicevano “Ne vedrai delle belle con questa qui”. Nonna però diceva che era tutta “spittizza”. E a me piaceva pensare che quella fosse la vera versione dei fatti.
Insomma, settembre e’ un mese di merda. Di quelli che nessuno vuole che arrivi mai davvero. Coincide con la fine di tutto e con la scuola che inizia. Per la nonna significo’ quella fase che io chiamo “presa di coscienza”. La nonna la chiamava “sta gran camurria”. Ed era bello vederlo cosi’, come una gran rottura di palle di passaggio. Un dettaglio di dimensioni millimetriche giusto per riportarti un po’ con i piedi per terra. Il cancro . “Un si po’ pensare che sempre tutto vada bene, sangu meo”. Wow. Per dirle mia nonna quelle parole, era davvero una presa di coscienza. Lei grande sognatrice, le piaceva vivere la vita senza timore alcuno. Da giovane doveva essere stata bellissima. Tutti dicevano che le somigliavo. Ogni sua parola era sempre accompagnata da una fragorosa risata. Da una pacca sulla spalla. Da una carezza sull’anima. Poi sdrammatizzava sempre. Dava alla malinconia il giusto peso, lo spazio dentro se stessa che meritava. Ad un tratto, tornava a ridere sghignazzando e la spazzava via appigliandosi a cio’ che di bello aveva. I suoi figli. Noi e quel nonno dai capelli bianchi.
“Ora che e’ settembre, vi ho comprato le tute per quando venite qua dopo la scuola” diceva a me e Valeria. E ci porgeva due tute con dei grandi topi, una blu e una gialla. Puzzano di magazzino, pensavo, ma allo stesso tempo odorano dell’amore di nonna. Sono più grandi di noi di una taglia ma “Che ci fa, cosi’ state più comode”. Ogni sua frase o gesto era sempre accompagnato da un’inspiegabile spensieratezza. I piccoli schiaffi della vita non le indurirono mai il cuore. Al contrario, la rafforzavano e le infondevano speranza. Poi le medicine e la chemio. Entra ed esci dalle cliniche, i medici, gli ospedali al nord. Io ero nel pieno della mia fase adolescenziale e non ci capivo nulla, o forse era più facile non vedere che poco a poco quelle medicine stavano spegnendo la luce della mia grande donna. Non te ne andare nonna, non sono pronta. Il giorno che la vidi con la parrucca in testa, mi illusi di intravedere una parvenza della mia nonna di sempre, quella elegante, ricoperta di anelli. Poi un cambio di umore e lei iniziava a sudare, ad agitarsi, ad imprecare su tutti i presenti. Nonno Alberto moriva di vergogna. Allora lei si toglieva quella parrucca come gesto di ribellione ed iniziava a gridare “Faccio quello che voglio con i miei soldi”. Erano pieni di debiti. Tra le cure, le cliniche private e le badanti, il peso economico era diventato insostenibile. Mia nonna aveva maturato una strada abitudine. Era stata una persona sempre particolarmente generosa, ma da qualche mese pareva che regalasse soldi come se percepisse assegni in bianco ogni mese. Non capimmo mai se qualche furbetto oso’ approfittare di un’ anziana malata o se era la malattia che diventava sempre più incalzante e dunque si era messa a fare elemosina alle badanti.
Mio padre, suo figlio, era un uomo tutto d’un pezzo. Nessuno l’aveva mai visto piangere. Mai un cenno di cedimento, una smorfia di tenerezza, una carezza. No, non era uno di quei padri frigidi, solo non sapeva cosa fosse il mondo delle emozioni, dei sentimenti. Lo rendevano fragile e lui non voleva perdere il controllo. Il controllo. Quello che mio nonno aveva perso da tempo. Trascinato nella profonda disperazione di una donna che ha paura di guardarsi allo specchio. “Questa parrucca, c’ho speso un sacco di soldi e mi sta di merda!” increpava.
I litigi tra lei ed il nonno erano all’ordine del giorno e lui non la riconosceva piu’ mi diceva. Io nemmeno. La Dea della festa era stata risucchiata per sempre in quei lunghi quattro anni di agonie e sofferenze. “Tieni, ti voglio regalare una cosa mia”, mi disse in uno di quei pochi momenti di lucidita’. Il suo anello di fidanzamento, uno dei suoi anelli, adesso orna le mie di mani. “Grazie nonna, io parto per Milano, pero’ tu aspettami che tra poco mi laureo e devi venire”.
Mi laureai due anni piu’ tardi e lei non ce la fece ad aspettarmi. Ventiquattro ore dopo il mio addio, il 28 febbraio 2013 l’anima della festa volo’ in cielo, lasciandomi in eredita’ la parte più bella di lei. Quell’immensa gioia per la vita. Ed un anello con inciso: ci saro’.
E’ il 28 febbraio 2022. Ho saluto la mia ultima nonna. Nonna Leda. La mia altra meta’. Quella sofferta, traumatica o traumatizzata non lo so.
Perche’ la verita’ e’ ho sempre assomigliato piu’ alle mie nonne che a mia madre.
Sono a pezzi.
Ma non so piu’ piangere.
Guardo le mie mani.
Sono piene di anelli.
Orfane.
Barriere
A volte ti fai paura. A volte sei cosciente che quello che vuoi e’ distanza. C’e’ una parte gelida di te, formale, distante. Quella stessa parte che hai dovuto mostrare cosi’ tante volte e che spesso ti ha mangiata viva. Quella abituata agli addi, ai rapporti a scadenza, al ticchettio degli orologi, alla vita negli aeroporti, nelle stazioni dei treni. Ti interroghi se quella piccola ragazza isolana sia ancora nascosta dentro di te, quella Chiara infantile che per anni hai oppresso cosi’ tanto che forse e’ scomparsa. E tu maledetta, ogni volta che lei sbucava fuori, la soffocavi, la maltrattatavi, la sbeffeggiavi e le imprecavi contro. Tra urla e schiaffi lei tornava nella sua caverna scura. Prigioniera tra i prigionieri. Imprigionata insieme a pezzi di te che hai rimosso. Incatenata a quella voglia indomabile di resurrezione. Dimenticata nel tuo inconscio.
Chi cazzo vuoi essere oggi Chiara? Quella persona impenetrabile, inavvicinabile che hai creato per non essere vista? O la Chiara infantile, innocente, che assume il rischio di esporsi e che a volte si e’ bruciata? Alla fine si sa, assumerai quell’aria diplomatica, di chi sorride ma non ride, di chi sente ma non ascolta. Osserverai. E osserverai per ore, cibandoti di energie che non conosci, lasciandoti cullare da una marea di parole di fantasmi che rappresentano pezzi di te che non vuoi vedere. Ogni dettaglio verra’ accuratamente analizzato prima di decidere consapevolmente se fare click. Aprire il tuo “mundo interior” caotico e rumoroso a chi non sai se sapra’ accoglierti. Capirti. Vederti. Ricambiarti. Ogni tua mossa e’ un investimento ponderato, calibrato, studiato a tavolino. Come la torre che a scacchi protegge sempre la regina in orizzontale e in verticale. Una linea sottile tra cio’ che permetti agli altri e cio’ che ti e’ permesso sentire.
Oggi scegli di essere una Chiara osservatrice. E quello che stai osservando ti piace. Ti senti a tuo agio. E allo stesso tempo ti senti piccola. Cosa ci faccio in mezzo a questa gente? E’ stato un anno difficile e sei scossa. Ti lecchi ancora le ferite. Eppure c’e`una nuova consapevolezza in te. Una parte di te e’ morta, andata via. Spazzata. Defunta. E’ diventata cenere.
E’ tempo di una nuova Chiara. Piu’ clemente con se stessa e piu’ tollerante con gli altri. Hai imparato il bello della diversita’. Che va bene se il resto del mondo non la pensa come te, se non ha lo stesso spessore d’animo che tu credi di avere. Che va bene non essere vista dalle persone sbagliate.
Oggi pero’, arrivi a questo incontro con l’aspettativa che i tuoi compagni di avventura debbano aver fatto un’analisi introspettiva simile alle tue. Sei dell’idea che chi scrive sia capace di una connessione profonda con se stesso che da tempo hai bramato. Ora che ne sei capace, forse, sai che questo e’ il posto giusto per iniziare delle connessioni diverse, dove la scrittura funge da collante. Da chiave di accesso a questo tuo “mundo”. Uno su cinque, drovra’ pure scaturire la tua curiosita’. Perche’ si sa, quello che vuoi e’ confrontarti con persone che stimi, diverse da te e allo stesso tempo cosi’ simili alla parte migliore di te. Quella che con una penna in mano si sente in pace.
Osservi questi emeriti sconosciuti dibattere su temi di cui non sei abituata a parlare. Sono solo nella tua testa. Non sai elaborarli ed esprimerli sottoforma di parola. Vedi come Giorgio si esprime con assoluta naturalezza e padronanza sulle sue teorie. In te noti una sana invidia verso questo ragazzo alto dai capelli lunghi. Emana un’energia positiva. La sua aura ha qualcosa di estremamente affascinante. La sua costanza ed il suo mettersi a servizio degli altri condividendo dettagli di come ha portato avanti il suo romanzo sono onorevoli. Potrebbe non farlo, eppure ti nutri di questa genuinita’ che spesso fai fatica a riconoscere in questo mondo. A suoi lati, Lucia e Giuseppe, piu’ introversi e taciturni; sembra che come te siano in una fase che in risorse umane si chiama non-participatory observation. Ti rendi conto che pensi spesso come una tipa da risorse umane. E’ il tuo modo di proteggerti. Ma ti dici anche che, quella parte corporativa ti fa schifo e non vuoi vivere tutta la vita indossando una maschera. Come il fantoccio di qualcun’altro che si nasconde dietro sorrisi falsi ed insulti velati. Hai capito che quel mondo ti annoia, e “mi annoi” si sa, e’ sempre stato il tuo modo di dire addio. Lucia e Giuseppe sembrano piu’ giovani. Vedi in loro la compostezza di chi ascolta i vecchi saggi e la curiosita’ del privilegiato che fin da giovane puo’ cibarsi di chiacchiere diverse da quelle da bar. Eppure tu nei bar c’hai raccontato storie di vita vera a quella poca gente in grado di leggerti l’anima, quando quel calice di vino rosso rendeva piu’ facile anche i discorsi piu’ astrusi e arzigogolati che nemmeno tu eri capace di capire da dove li partorissi. Come quella volta che con Elea parlasti della scelta di morire. Non lo sapevi ancora, ma da li a poche ore il telefono avrebbe squillato e tu, all’alba delle tue 21 primavere impastate con tutta la tua genuinita’ tipica di quell’eta’, avresti avuto la tua prima conversazione con la morte. Non era la tua no, probabilmente sarebbe stato molto piu’ facile. Tuo cugino A. ti chiamo’ dal bagno di uno di quegli squallidi autogrill, era in preda ad una crisi di nervi frutto della sua diagnosticata bipolarita’. Stava contemplando di farla finita proprio in quel bagno, aveva delle allucinazioni ed era accecato da solo ed esclusivamente pensieri suicidi. Avevi 21 anni e la vita bastarda aveva deciso che tu in quel momento dovevi essere l’eroina dei film Marvel nell’esistenza di qualcun’altro. Non ricordi bene cosa dicesti, ma Alessandro si senti’ rassicurato e chiamo’ uno zio che viveva a 10 ore d’auto da quel fottuto autogrill nella citta’ di Bari. Ricordi solo che dicesti “Ti prego, non farlo.” Il resto e’ tutto molto confuso nella tua testa. Ricordi che quello fu il tuo primo grande trauma e per la prima volta lo stavi raccontando a voce alta alla tua migliore amica a Barcellona in uno squallido bar cinese. Squallido come quel ricordo, squallido come i bagni degli autogrill, in cui da allora entri solo sei hai davvero un urgenza fisiologica irrefrenabile. A. adesso sta bene. A Bari non c’e’ mai piu’ tornato.
Ci sono altri due personaggi in questa stanza fredda che la inondano con la loro tiepida energia. Sono molto diverse, da un lato una compositrice. Sogna ad occhi aperti e vive di musica. Ti parla di un manuale di cui hai dimenticato gia’ il nome dieci volte e che forse non leggerai mai. Hai un pila di libri da leggere infinita su quel comodino. Sono tutti raggruppati in ordine d’acquisto, per grandezza e colore di copertina, ma sono impolverati da un velo di pigrizia. Accanto a lei, una piccola ragazza dall’energia strabiliante. Ride e mostra un ascolto attivo. Lei si che partecipa. Annuisce e segue ogni parola con estrema attenzione. Tu ti sei persa cento volte, mentre lei sembra capace di silenziare i suoi pensieri ed accogliere nel suo mondo ogni parola dei suoi compagni di avventura. “Come si chiama il tuo blog?” ti chiede. E tu vorresti sotterarti. Sprofondare. Conoscono l’esistenza di questo blog dieci persone al mondo. In un attimo il numero e’ passato a quindici. Dentro di te speri che non ti cercheranno mai. C’e’ troppo di te che ha bisogno di essere visto ed allo stesso tempo troppo di te che teme l’opinione altrui. Eppure il tuo istinto ti dice che Irene non ti leggerebbe con giudizio. Passeggiamo verso casa in quella notte d’inverno tiepido. Siamo a Sagrada Familia e sto condividendo con una sconosciuta la mia grande passione per la scrittura ed alcune vulnerabilita’ mai processate, forse, a voce alta. Le tue barriere sono andate in fumo. C’e’ voglia di essere vista e non nascondersi dietro un personaggio oscuro e misterioso. La scrittura ci lega e ci culla in un racconto di vite che si sono appena sfiorate mentre il fumo di una sigaretta annebbia ogni filtro di protezione. Qui ed ora, scelgo che voglio essere una Chiara che si fida, si affida alle connessioni che la scrittura ha portato sul suo cammino un sabato di Gennaio dopo aver conosciuto un gruppo di expats italiani che si e’ raccontato senza paura. Senza maschere, senza inganni. Danzando su una linea sottile tra chi siamo e cosa vogliamo raccontare di noi.